III
Oggi
rimango nel letto. È così soffice. Il mondo è pieno di spigoli.
Sono stanca. Stanca di vomitare. Stanca di guardarmi allo specchio.
Stanca di dover mostrare un sorriso che tanto non c’è più. La
pioggia è come una sveglia silenziosa. Come i cellulari con la
vibrazione. Non mi lascia dormire. Il lenzuolo è ancora sporco di
sangue. Mi piace sovrapporre i tagli alle macchie. Mi fa provare di
nuovo quelle sensazioni. Sangue su sangue macchia e non va mai via.
Tra poco sentirò la macchina di mamma entrare in garage. Sono quasi
le tredici e lei non se ne starà certo zitta. Parla parla parla
senza mai dire nulla. Io sto male. Fucilami per questo. Le pieghe del
lenzuolo mi ricordano le onde del mare. Sono il alta marea e non vedo
nessuna mano pronta a salvarmi. Quando stavo in comunità mi
lamentavo che ce n’erano fin troppe. Non mi va mai bene nulla.
Forse è per questo che l’anello mi pesa così tanto. Ritornerei
indietro di un anno. O probabilmente no. Finalmente ho lo stomaco
vuoto. Avevo dimenticato quanto fosse bello sentirlo lamentarsi. Ma
sta solo applaudendo. Ma chi voglio prendere per il culo. Perché
applaudire? Non entrerò mai in una taglia 38. Quello sarebbe da
ovazione.
Ecco mia mamma. Le ruote
sull’asfalto. Le odio. Nemmeno la pioggia riesce a coprirle. Di
certo non mi muoverò da questo letto. Muoversi per chi? Per cosa?
Quando c’era P. a dirmi quanto fossi bella forse c’era un
motivo. Ora passo così tanto tempo in silenzio che a volte mi sembra
di non riuscire a comunicare. Ridatemi la comunità. Ridatemi la
parola. Le gocce non bastano. Non basta mai niente. Mai.
Neppure piangere basta. Neppure per quello c’è molto tempo. Non
c’è mai molto tempo a disposizione. Conserva le lacrime. Conserva
la comunicazione. Verranno giorni migliori. Se smette di piovere
magari esco. Lo so sono lunatica. Ma non ne posso più di sentire mia
madre urlare il mio nome. Mi rimbalza nel cervello come un proiettile
che si annida nel cranio senza abbandonarlo. Potrei anche morire.
Qui. Sotto alle lenzuola. Almeno verrei sepolta avvolta da uno
straccio bianco. Ho paura. Paura di morire. Paura di vivere. La paura
genera paura. Ridatemi la comunità. Ridatemi la parola. C’è così
tanto che desidererei dire. Vorrei che i cassetti fossero bocche
attraverso cui pronunciarmi. Magari loro sarebbero capaci di mandare
a fanculo mia madre. Mandare a fanculo la malattia. Quel proiettile
annidato nel cranio. Il mio nome. F. È da lì che è nato
tutto. Inizi con l’essere un nome e finisci con l’essere un pezzo
di carne buttato al macello. Un pezzo di carne di vent’anni e
passa. I kg non voglio nemmeno contarli. Sono troppi. Troppa la carne
che avvolge questo nome. Le ossa. Questo voglio sentire. Ecco che
mamma entra in camera. F è l’una.
Via. Via. Vai via. Lascia il mio cervello. Ridatemi la notte.
Ridatemi il silenzio. C’è qualcosa di marcio in tutta questa
storia. A cominciare dall’anello. Non lo voglio più. Quanti baci
dati a vuoto. Il mio dito pesa più di tutto il corpo. Basta pensare.
Tagliare le ali al pensiero. È questo che mi serve. Dormire un po’.
Sognare. Ecco sognare è una cosa che non faccio da chissà quando.
Vorrei sognare di essere di nuovo un noi. Un soggetto al plurale.
Qualcuno che non ha bisogno di qualcun altro. Noi. Di nuovo noi. Noi
come nei giorni più belli. Noi come quando c’era il sole e si
sorrideva. Con la testa fuori dal lenzuolo. Fuori da una stanza.
Ridatemi un noi. Ridatemi qualcosa. Non chiedo molto. Ma ridatemi
qualcosa. Che poi è tutto un rimuginare da sola. Sto diventando
pazza. Forse lo sono sempre stata. Una di quelle persone che devono
stare sempre ricoverate o non ce la fanno a tirare avanti. Tirare
avanti. Ecco un’altra cosa che non faccio da chissà quando. È da
un po’ che ho messo la marcia indietro. Quando mi schianterò
contro un muro? Quando potrò dire basta a questo incubo. Ridatemi la
vita. Oppure datemi la morte. Che dette così sembran parole uscite
da uno stesso buco.
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