giovedì 25 luglio 2013

La musa sul fosso CAPITOLO III

III
Oggi rimango nel letto. È così soffice. Il mondo è pieno di spigoli. Sono stanca. Stanca di vomitare. Stanca di guardarmi allo specchio. Stanca di dover mostrare un sorriso che tanto non c’è più. La pioggia è come una sveglia silenziosa. Come i cellulari con la vibrazione. Non mi lascia dormire. Il lenzuolo è ancora sporco di sangue. Mi piace sovrapporre i tagli alle macchie. Mi fa provare di nuovo quelle sensazioni. Sangue su sangue macchia e non va mai via. Tra poco sentirò la macchina di mamma entrare in garage. Sono quasi le tredici e lei non se ne starà certo zitta. Parla parla parla senza mai dire nulla. Io sto male. Fucilami per questo. Le pieghe del lenzuolo mi ricordano le onde del mare. Sono il alta marea e non vedo nessuna mano pronta a salvarmi. Quando stavo in comunità mi lamentavo che ce n’erano fin troppe. Non mi va mai bene nulla. Forse è per questo che l’anello mi pesa così tanto. Ritornerei indietro di un anno. O probabilmente no. Finalmente ho lo stomaco vuoto. Avevo dimenticato quanto fosse bello sentirlo lamentarsi. Ma sta solo applaudendo. Ma chi voglio prendere per il culo. Perché applaudire? Non entrerò mai in una taglia 38. Quello sarebbe da ovazione.
 Ecco mia mamma. Le ruote sull’asfalto. Le odio. Nemmeno la pioggia riesce a coprirle. Di certo non mi muoverò da questo letto. Muoversi per chi? Per cosa? Quando c’era P. a dirmi quanto fossi bella forse c’era un motivo. Ora passo così tanto tempo in silenzio che a volte mi sembra di non riuscire a comunicare. Ridatemi la comunità. Ridatemi la parola. Le gocce non bastano. Non basta mai niente. Mai.  Neppure piangere basta. Neppure per quello c’è molto tempo. Non c’è mai molto tempo a disposizione. Conserva le lacrime. Conserva la comunicazione. Verranno giorni migliori. Se smette di piovere magari esco. Lo so sono lunatica. Ma non ne posso più di sentire mia madre urlare il mio nome. Mi rimbalza nel cervello come un proiettile che si annida nel cranio senza abbandonarlo. Potrei anche morire. Qui. Sotto alle lenzuola. Almeno verrei sepolta avvolta da uno straccio bianco. Ho paura. Paura di morire. Paura di vivere. La paura genera paura. Ridatemi la comunità. Ridatemi la parola. C’è così tanto che desidererei dire. Vorrei che i cassetti fossero bocche attraverso cui pronunciarmi. Magari loro sarebbero capaci di mandare a fanculo mia madre. Mandare a fanculo la malattia. Quel proiettile annidato nel cranio. Il mio nome. F. È da lì che è nato tutto. Inizi con l’essere un nome e finisci con l’essere un pezzo di carne buttato al macello. Un pezzo di carne di vent’anni e passa. I kg non voglio nemmeno contarli. Sono troppi. Troppa la carne che avvolge questo nome. Le ossa. Questo voglio sentire. Ecco che mamma entra in camera. F è l’una. Via. Via. Vai via. Lascia il mio cervello. Ridatemi la notte. Ridatemi il silenzio. C’è qualcosa di marcio in tutta questa storia. A cominciare dall’anello. Non lo voglio più. Quanti baci dati a vuoto. Il mio dito pesa più di tutto il corpo. Basta pensare. Tagliare le ali al pensiero. È questo che mi serve. Dormire un po’. Sognare. Ecco sognare è una cosa che non faccio da chissà quando. Vorrei sognare di essere di nuovo un noi. Un soggetto al plurale. Qualcuno che non ha bisogno di qualcun altro. Noi. Di nuovo noi. Noi come nei giorni più belli. Noi come quando c’era il sole e si sorrideva. Con la testa fuori dal lenzuolo. Fuori da una stanza. Ridatemi un noi. Ridatemi qualcosa. Non chiedo molto. Ma ridatemi qualcosa. Che poi è tutto un rimuginare da sola. Sto diventando pazza. Forse lo sono sempre stata. Una di quelle persone che devono stare sempre ricoverate o non ce la fanno a tirare avanti. Tirare avanti. Ecco un’altra cosa che non faccio da chissà quando. È da un po’ che ho messo la marcia indietro. Quando mi schianterò contro un muro? Quando potrò dire basta a questo incubo. Ridatemi la vita. Oppure datemi la morte. Che dette così sembran parole uscite da uno stesso buco.

 

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