domenica 21 luglio 2013

La musa sul fosso CAPITOLO I

I

È più facile pensarsi brutte. Il vomito scivola via con lo sciacquone del water. Guardo l’anello che ho al dito. È un anno che non ci vediamo più. È ora di metterlo via. Ma sembra tutto più forte di me. Una spirale che mi trascina sempre giù nel fosso. Sono appena uscita da una comunità e siamo punto e a capo. Lo specchio è una tortura. Non c’è un vestito che mi vada bene. Tutto troppo stretto. Forse è la vita ad andarmi stretta. Se ripenso a qualche settimana fa vedo solo sorrisi. Il sorriso che finalmente avevo recuperato. Che poi neanche mi piace. Anche se S. dice che con quello potrei far riprendere a girare il mondo. Me ne esco un po’. Il pomeriggio è assolato e terso. Un po’ troppo ventoso. Non si capisce se le onde stanno facendo l’amore o la guerra. Vorrei buttarmi in mezzo all’acqua e morire. Magari diventerei una sirena. Le sirene non sono destinate alla bulimia. Tutta colpa dell’Asl. Avrebbero dovuto darmi il prolungamento di qualche mese. Tanto sono io la protagonista di questa vita di merda. Soldi soldi. Tutto ruota sui soldi. Riguardo l’anello e penso che forse il tutto ruota anche un po’ sull’amore. Beh di certo non passa da queste parti. Un tempo c’era passato. Mi manca P. e mi manca non poco. Mi manca il calore delle sue mani. Calore che adesso posso ritrovare solo nel Sole di questa cavolo di cittadina. Sono lontana kilometri dalla comunità. Varese sarà pur il pisciatoio d’Italia ma almeno mi stavo ritrovando. È dura ritrovarsi dopo anni di malattia. La sabbia mi passa tra le dita dei piedi con indifferenza. C’è una sottile linea che non bisogna oltrepassare. Se la oltrepassi muori. Non va bene neanche morire di questi tempi. Sfigurerei nella bara. Devo metter giù qualche kg assolutamente. Mi vibra il cell. È di nuovo S. Mi dice che c’è un angolo nel suo cuore dove non arrivano mai il freddo e il rumore del tempo dove posso nascondermi in ogni momento. S. Anche lui è uscito. Anche lui si è di nuovo incasinato. Ha ripreso col bere e l’autolesionismo. Pensare che a settembre stavo sdraiata sulle sue gambe fa male. Troppo lontani quei momenti. La pace e la tranquillità di una serata difficilmente recuperabili. Questo mare blu mi separa da tutto e da tutti. Torno a casa e mia madre mi chiede dove sono stata. Non rispondo e mi infilo sotto le coperte. Magari riesco a recuperare un po’ di quella pace. Di quella tranquillità. Mi torna in mente una canzone dei Subsonica. Incantevole. In qualche modo mi riporta a quella sera e poi qui nel mio letto. Fuori è un mondo fragile. Mai nulla di più vero. Allungo le mani e trovo un taglierino. Mi incido le braccia con precisione chirurgica. Il sangue fuoriesce lentamente con una flemma quasi assurda. Ne lecco un po’. Ha il sapore metallico. Mia madre mi chiama per cena. Ho ancora in bocca il sapore della merenda che ho rigurgitato. Urlo che ho preso un colpo d’aria. Non posso mangiare. Non devo mangiare. Voglio un corpo perfetto. Uno di quei corpi che vedi alla televisione. Di quelli che sembrano avvolti da uno strato di cellofan. Che poi chissà se sono veri. Forse sono solo frutto del riflesso troppo luminoso dello schermo. Se così fosse non vorrei essere che un riflesso troppo luminoso. Un rinculo della pupilla. Non so nemmeno io chi voglio essere. Il fluire del sangue mi ricorda che sono una ragazza fin troppo fragile. Come un orsacchiotto di Swarovski a cui è caduta la testa. Che poi se ci penso bene quella testa vagante continua ad avere il suo indistinguibile fascino. Ma allora perché Io non riesco a intravedermi fascinosa? Perché quel che rimane di me è un lenzuolo sporco di rosso? Ho bisogno di tornare in comunità. Quantomeno ritrovare quei volti. P., S. Volti che oramai si confondono. Emozioni che a fatica si riaffacciano alla memoria. C’è un angolo dove non arrivano mai il freddo e il rumore del tempo dove posso nascondermi in ogni momento. Orsacchiotto di cristallo che ha perso la sua testa. Ma che il suo fascino non lo perde mai.

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